Sono ormai molti i segnali di rallentamento dell’economia globale che giungono da diverse parti del mondo: la crescita sta peggiorando in Europa, alle prese con le problematiche della Brexit, le rivolte in Francia e la lunga trattativa tra la Commissione Ue ed il Governo Italiano sulla Legge di Stabilità; molti paesi emergenti stanno sperimentando maggiori difficoltà nel mantenere i ritmi degli ultimi anni, in primis la Cina, che, pur registrando un progresso medio superiore al 6%, ha abbandonato ormai definitivamente i tassi di sviluppo prossimi al 10% degli anni immediatamente successivi alla crisi del 2008; infine i primi segnali di rallentamento si stanno manifestando negli Usa, con il progressivo esaurimento dello stimolo fiscale della riforma entrata in vigore ad inizio 2018, i maggiori timori derivanti dalla politica dei dazi e la decisa correzione del mercato azionario degli ultimi mesi che potrebbe prima o poi avere effetti sui consumi.
Già, il mercato azionario, fino all’estate i listini azionari americani erano tra le poche asset class a risultare in positivo, con guadagni vicini al 10% per l’S&P 500 e superiori al 15% per il Nasdaq ed un trend di crescita che durava ininterrottamente da oltre nove anni; da inizio ottobre lo scenario è mutato radicalmente ed i listini Usa sono entrati ormai ufficialmente in “bear market”, essendo la correzione prossima al 20% e gli indici al di sotto delle medie mobili di lungo periodo. Il mercato azionario, come in altre fasi storiche, è al tempo stesso causa ed effetto dell’andamento dell’economia reale: in questo momento sembrerebbe prevalere la seconda componente, con i prezzi che starebbero scontando una minor crescita (e quindi minori utili) futura ma, in caso di un prolungamento della correzione, potrebbe iniziare a pesare anche l’effetto ricchezza deprimendo i consumi e quindi la crescita ed innescando un potenziale circolo vizioso.
Il quesito a questo punto potrebbe essere: “ma il mercato azionario (Usa) è correttamente valutato?”, la risposta dipende in buona parte da quello che sarà l’andamento futuro dell’economia: in caso di semplice rallentamento (senza un ingresso in recessione) i livelli attuali dei listini non sembrerebbero particolarmente elevati ma il giudizio cambierebbe radicalmente in caso di crisi economica (soprattutto se quest’ultima dovesse estendersi contemporaneamente a più aree del globo). Tutto ciò ci riporta al punto iniziale ovvero alla natura dell’attuale rallentamento: sarà graduale e capace di normalizzarsi, una volta raggiunti livelli di crescita più sostenibili nel lungo periodo (la cosiddetta crescita potenziale), o è solo l’inizio di una correzione più profonda destinata a sfociare in una recessione?
Proviamo ad identificare alcuni elementi oggettivi che potrebbero esserci di aiuto nella diagnosi dello stato dell’attuale ciclo economico e delle sue prospettive future:
- durata del ciclo: è un dato di fatto che l’attuale fase espansiva americana sia tra le più lunghe della storia, se si protraesse per ulteriori due trimestri diventerebbe la più lunga in assoluto, superando il decennio 1991-2001. L’analisi della durata dei cicli economici sembra tuttavia piuttosto semplicistica e vale la pena ricordare che la “vita media” delle fasi espansive è aumentata nel corso del tempo, anche per la migliorata capacità da parte delle Banche Centrali di comprendere e regolare il ciclo stesso, avvicinando la crescita effettiva a quella potenziale;
- struttura dei tassi: una delle variabili più osservate negli ultimi tempi è il cosiddetto differenziale tra i tassi a 10 e 2 anni in vista di un possibile passaggio in negativo (cosiddetta inversione della curva). Alcuni studiosi hanno verificato che storicamente un’inversione della curva dei tassi precede l’inizio di una recessione anche se non ci sono certezze sui tempi (essendo il periodo variabile da 10 a 23 mesi) ed essendo ancora forte l’effetto delle politiche “non convenzionali” della Fed sui tassi Usa;
- fine delle politiche monetarie espansive: con l’inizio del 2019 sono terminati gli acquisti di titoli da parte della Bce (che allo stesso tempo ha annunciato che manterrà ancora a lungo i tassi ai livelli attuali) mentre la Fed ha già iniziato la progressiva riduzione dell’ammontare dello stock delle attività in bilancio ed ha aumentato di due punti i tassi ufficiali negli ultimi tre anni. Lo stimolo monetario sotto forma di iniezioni di liquidità si è esaurito ma il livello dei tassi resta ampiamente al di sotto delle medie storiche sia in termini nominali che reali; inoltre le banche centrali si sono mostrate disponibili a venire incontro ad un eventuale rallentamento della crescita fornendo, nel caso della Bce, liquidità alle banche sotto forma di programmi simili all’ultimo TLTRO e aggiustando, nel caso della Fed, il previsto sentiero di aumento dei tassi;
- squilibri (bolle) in atto: le ultime recessioni hanno spesso avuto effetti scatenanti esterni (bolla Internet, mutui subprime) dovuti a loro volta a squilibri in determinati mercati. Al momento gli asset più a rischio di sopravalutazione sembrerebbero essere nel reddito fisso, con le obbligazioni governative europee al culmine di un ciclo pluridecennale di rivalutazione dei prezzi, grazie ai ribassi dei tassi di interesse, mentre l’obbligazionario corporate ha già corretto specie per quanto riguarda gli “high yield”. In entrambe i casi si tratta però di “bolle controllate” essendo i prezzi dei titoli legati al livello dei tassi di interesse che non dovrebbe salire in modo eccessivo (si veda in proposito il punto precedente);
- variabili geopolitiche: la questione dei rapporti commerciali tra gli Usa ed i principali partner commerciali è forse la variabile meno prevedibile e più rischiosa dal punto di vista degli effetti sull’economia reale. Una escalation della politica dei dazi costituirebbe una concreta minaccia al commercio mondiale ed una seria ipoteca sulla prosecuzione dell’attuale fase espansiva. Anche una Brexit non ordinata potrebbe portare ad effetti negativi sulla crescita nel continente Europeo che poi potrebbero riverberarsi a livello globale. In entrambe i casi si confida nella ragionevolezza della classe politica che finora ha dimostrato di non voler alzare il livello dello scontro oltre la normale dialettica negoziale.
Nel complesso molte delle variabili esaminate sembrano essere sotto controllo o quantomeno controllabili da politiche pro-attive: per il 2019 il consensus resta orientato verso una crescita più contenuta ma pur sempre positiva, con la prossima recessione che non dovrebbe materializzarsi prima del 2020 ma non è escluso che se tutti gli elementi esaminati dovessero volgere al peggio (o dovessero aggiungersene dei nuovi, il Cigno Nero è sempre in agguato) la resa dei conti possa essere anticipata …
Un augurio a tutti i nostri lettori per un fruttuoso 2019
C.G.